La maledizione del viaggiatore è che anche quando si trova nel posto perfetto, nella sua mente – prima o poi – si profila sempre un posto “più perfetto” da raggiungere.
E così la ricerca si trasforma in patologia, in condanna ad essere sempre insoddisfatti di ciò che si ha e nella esigenza vitale di cercare senza mai trovare il proprio habitat
Non amo particolarmente i lieto fine, ma devo ammettere che continuare a dondolare su su un’amaca di Little Corn Island sarebbe stato un bel finale se non fossi stato sopraffatto dalla suddetta patologia.
Arrivare a Puerto Limon direttamente dall’isola nicaraguense non è stato un gioco da ragazzi. E’ stato necessario prima tornare a Bluefields, poi aspettare l’occasione giusta seduto su uno sgabello della taverna del Pajaro Selvaje cercando di passare inosservato ai trafficanti di droga che bazzicano il suddetto villaggio di pescatori e che spesso hanno il grilletto facile.
Ci sono volute due settimane di maledettissima attesa prima che l’occasione mi oscurasse la visuale delle palafitte sul mare proprio mentre, seduto sullo sgabello come al solito, sorseggiavo l’ennesimo bicchiere di rum.
“Che accidenti ci fa un barca a vela guiri da queste parti?”
Passarono non più di venti minuti prima che due ceffi, che non sapevano in che guaio erano appena sbarcati, oltrepassassero le porte del Pajaro Selvaje e chiedessero al proprietario, in uno spagnolo diluito da un marcato accento francese, dove poter trovare della attrezzatura per la barca a vela, visto che gli erano saltate quasi tutte le sartie.
Sennonché Don Paco, il proprietario della locanda noto per essere un tipo di poche parole, non sembrava essere disposto a dare informazioni e – pur non essendosi mai spostato da Bluefields in vita sua – fece subito notare di essere lì esclusivamente per uno scopo ben preciso:
“Che prendete”?
Più che un invito suonò come una minaccia, una minaccia davanti alla quale mi sentii in dovere di intervenire:
“Paco, servi ai signori due bicchieri di flor de cana”
Dopodiché mi alzai in piedi, mi tolsi il cappello e mi avvicinai al lato dei due francesi cercando di fornire tutta la protezione di cui gode uno che nelle ultime settimane aveva condiviso brindisi e bevute con i membri del cartello locale.
“Tranquilli, vi faccio trovare tutto il materiale che vi serve,se mi date uno strappo”.
E così, dieci giorni di navigazione dopo, eccomi arrivato nel porto più importante della Costa Rica, porto da cui partono navi cariche di banane e di ananas per il mercato europeo.
In questi giorni si sta celebrando il carnevale.
Migliaia di persone sfilano e danzano come se non ci fosse un domani e come se l’umidità non fosse già un supplizio. La città è stata fondata nel 1502 allorquando Cristoforo Colombo sbarcò sulla vicina isla Uvita e, in onore di questo evento, ogni 12 di ottobre si celebra “el dia de la raza”, cioè il carnevale.
A connotarlo sono soprattutto gli afro-americani che discendono da quegli operai giamaicani che, alla fine dell’800, furono portati qui per costruire la ferrovia che collegava Puerto Limon a San Josè.
Ma io non ho voglia di festeggiamenti.
Il mare mi ha segnato più di quanto credessi.
E non già per il sole perennemente a picco o per il moto ondoso, ma per via della coabitazione con i due bizzarri francesi, Jean e Bernard.
Strani tipi quelli
Che fossero i nipoti del famoso navigatore Bernard Moitessier, il primo uomo al mondo capace di circumnavigare il globo senza scalo, l’ho scoperto solo quando ci siamo salutati e mi hanno regalato una copia con dedica de”La lunga rotta“,il più famoso libro del nonno.
Nel libro è narrata l’impresa più spettacolare compiuta dal grande velista scomparso negli anni ’90. Quest’ultimo infatti, pur avendo praticamente vinto la Golden Globe race passando per i capi di Buena Speranza, Leewin e Horn, prima di tagliare il traguardo, decise improvvisamente di non tornare più in Europa e di abbandonare la gara rinunciando al relativo premio. Percorse così un altro mezzo giro del mondo, senza scalo, fino a raggiungere il 21 giugno del 1969, dopo aver percorso 37455 miglia, Tahiti nella Polinesia francese.
Non so se è chiaro dov’è la Polinesia francese: è praticamente quella caccola in mezzo all’oceano a migliaia di chilometri sia dall’Oceania che dall’America.
E ora Jean e Bernard provano ad emularlo prima circumnavigando il nuovo continente, poi affrontando per mesi il mare aperto.
Mentre leggo il libro estraniandomi del tutto dalla confusione che mi circonda, penso che per un attimo ho fatto parte di una grande impresa e che, in fondo, del carnevale di puerto Limon me ne frega davvero poco.
Eppure è difficile non farsi coinvolgere: è pieno di turisti.
Già di turisti che si muovono in branco e sono appena sbarcati da una nave da crociera ancorata nel porto.
In Nicaragua mi ero quasi dimenticato come fossero fatti.