Mi ha molto colpito l’intervista, pubblicata sul Corriere della Sera, alla vedova del noto giornalista Gianpaolo Pansa. Nella stessa si lamentava come Pansa, scomparso da poco, sia stato di fatto ignorato dal mainstream senza troppe celebrazioni.
In effetti per un paese come l’Italia, che dedica settimane a scrittori mediocri, è apparso un fatto inusuale. Per questo motivo la vedova Pansa ci ha tenuto a precisare come quest’ultimo, pur venendo da posizioni di sinistra e avendo sempre orbitato in tale mondo, alla fine abbia ricevuto il giusto tributo esclusivamente dai “vinti” cui lui aveva ridato dignità con le sue pubblicazioni incentrate sulla mattanza e sulle stragi compiute dai partigiani a guerra finita.
Qual è stata dunque la colpa di Pansa per essere tanto osteggiato? Aver avuto il coraggio, da sinistra, di raccontare dei fatti dopo ben 60 anni dagli accadimenti? Perché l’Italia non riesce mai a fare i conti con obiettività con la propria storia? E perché mai solo il conformismo premia, mentre chi si dissocia viene condannato al gulag intellettuale?
Ecco, ho ragioni valide per ritenere che la guerra sia finita da un pezzo e sia giunto il momento di riconoscere il diritto a chiunque di poter affermare l’avvenimento di un fatto senza dover per questo subire un embargo dal pensiero dominante.
Lo psico- reato che è stato contestato a Pansa non riguarda infatti il racconto di fatti non veritieri, ma il racconto fatti che non andavano proprio raccontati.
Domanda: perché?