Cammino francese 2019. Da Astorga a Santiago.
Breve premessa.
Il quinto cammino non è come gli altri. Non dona più l’ebbrezza della sorpresa dei luoghi e la programmazione lascia meno spazi di manovra all’imprevisto. Per questo continuo a pensare che l’unico vero cammino che ho percorso, quello in cui ho espresso tutto me stesso, sia stato il primo nel 2011, mentre i successivi siano stati solo un tentativo di “rivivere” qualche emozione. Nel 2011 infatti, nel percorrere il cammino da San Jean a Santiago, ho vissuto la più grande esperienza della mia vita, esperienza che non è di certo stata eguagliata né dal cammino del nord nel 2012, né dal cammino portoghese nel 2014 e tantomeno dal brevissimo cammino del 2015. Dunque ora cosa mai posso raccontare di bello nel ritornare su un cammino spagnolo dopo ben 4 anni? Ovviamente non una descrizione dei luoghi e delle tappe ( per quello ci sono le guide!), né una mera sintesi delle fatiche. Un diario ha infatti senso solo se riesce a esprimere un pensiero con riflessioni, incontri, sensazioni. Per questo motivo posso innanzitutto raccontare che il mio spirito è cambiato: non sono più un giovane avventuriero, ma una persona che non ha rinunciato ancora a ricercare se stesso. Inoltre ribadisco che non concepisco cammino senza meta: la meta è sempre fondamentale, altrimenti il cammino non ha senso. Eppoi, credetemi, quella Cattedrale l’avrò pure vista milioni di volte, ma mi fa sempre venire la pelle d’oca. Ogni volta che la vedo, per me tutto appare chiaro e ogni sacrificio, ogni sforzo, ogni passo nel fango sotto la pioggia o sotto il sole cocente assume valore. Per questo nella vita vorrei sempre avere delle frecce che mi indicano la strada giusta per conseguire quella stessa chiarezza.

Introduzione.
Perché sono ritornato a Santiago? Essenzialmente perché l’Apostolo, che è molto possessivo con i suoi pellegrini, ogni tanto mi chiama e mi invia dei segnali: sa infatti che Santiago è la mia ricetta per la felicità.
Eppoi, non si sa perché, quella grandissima turigrina di mia sorella ha deciso di percorrere il tratto Sarria – Santiago assieme a suo marito. Dovevo o no aggiungermi? Per decenza ho però deciso di partire almeno un po’ prima, cioè da Astorga, in modo da poter rivedere la Cruz de Hierro e il Cebreiro, due simboli del cammino cui sono molto legato. Il problema però è stato che – avendo i giorni contatissimi – i miei primi 3 giorni di cammino si sono caratterizzati per tappe estenuanti e pochissimi incontri. E’ stato quindi un cammino quasi solitario con rari momenti di condivisione: un vero peccato.
Quanto segue viene riportato in forma di diario raccontando in prima persona ogni avvenimento.
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Tappa da Astorga a Molinaseca, 45 km
La Cattedrale di Astorga
Sugli autobus che dall’aeroporto di Madrid mi hanno condotto ad Astorga ho conosciuto Janina, una giovanissima ragazza tedesca che ha appena finito le scuole e ha deciso di percorrere parte del cammino da sola. L’avevo vista sorridente, unica tra tanti passeggeri abbrutiti, con la conchiglia sullo zaino e – visto che non conosce una parola di spagnolo – l’ho aiutata pure a salire sull’autobus giusto. Dopodiché siamo andati a cercarci un albergue e siamo andati a cena. Desideravo da tempo rimangiare el “cocido maragato”, ma pare purtroppo che a cena non lo facciano, dunque mi devo accontentare di un burger. Astorga però merita sempre. E’ una cittadina intimamente spagnola piena di vita in cui la Cattedrale e il palazzo arcivescovile disegnato da Gaudì in età giovanile segnano solo il confine dello struscio serale che ha vede il suo epicentro nelle piazzette animate dai bar e, in particolare, nella plaza de España con il rinascimentale palazzo comunale ( cosas consistoriales) caratterizzato da una facciata a torri e un orologio a figure che battono le ore grazie ad un antichissimo meccanismo.

La serata turistica dura però poco, perché la sveglia per me suona presto. La prima tappa infatti per me inizia quando la mia camerata sta ancora tutta dormendo e fuori c’è solo buio. Inizio però a camminare come se avessi le ali ai piedi: le preparazioni silenziose, le torce che illuminano la strada e i primi “buen camino” mi danno subito lo sprint. La prima sosta la faccio in una cappella poco oltre Astorga in cui una pietra riporta in diverse lingue la frase “la fede, fonte di salute”.
Qui ripenso tra l’altro a David, il catalano che per anni ha deciso di rimanere in una baracca a San Justo de la Vega poco prima di Astorga e ultimamente ha ritenuto di diventare volontariamente un barbone vivendo di questua a Santiago de Compostela. Perché l’ha fatto? Perché un uomo, tra l’altro intelligente e capace, decide di abbandonare tutto e di vivere in mezzo alla strada? Non so proprio darmi una risposta e, per questo motivo, mi piacerebbe tanto incontrare David per chiederglielo.

Mentre ci penso attraverso, senza fermarmi mai, tutte le località che precedono la Cruz de Hierro: el Ganso, Santa Catalina de Somosa, Rabanal del Camino. Ogni passo per me evoca un ricordo, una fatica, un incontro: una birra assieme a Victor nel bar del pazzo della legione straniera, una cena assieme al francese con cui poi arrivai a Santiago nel 2012, l’agonia fino a Rabanal che mi mise in grande difficoltà.
E’ la prima volta che affronto la Cruz de Hierro senza spezzarla in due tappe, ma non mi pesa: vederla, lasciare le mie pietre lì – portate direttamente dal mio mare in Italia – e fermarmici a pregare è per me motivo di grande emozione.
Lungo il percorso faccio anche una conoscenza interessante con James, un ragazzo inglese di Manchester venuto sul cammino, in onore del Santo di cui porta il nome, da studioso di storia medievale.
Al collo porta una croce e con lui la conversazione si fa subito piacevole. Tra l’altro ride ogni volta che nota che sui cartelli stradali della “Castilla y Leon” qualcuno ha cancellato la parola Castilla.

Man mano che il tempo passa il mio incedere si fa però sempre più incerto. La fatica è giunta, ma non mi frena. Mi fermo infatti solo per pochi attimi a Monjarin da Tomas, “l’ultimo templare”, per scoprire che anche lui ha rinnovato la baracca per promuovere sempre di più il commercio.
Arrivo quindi – ormai esausto e con oltre 40 km già percorsi – finalmente nel Bierzo, precisamente al Acebo, dove diversi cartelli giganti pubblicizzano quello che e’ “probabilmente il miglior albergue del cammino di Santiago” ( sì, sul cartellone c’è scritto proprio così).
Avete presente le oasi nel deserto che, affannati, intravedete da lontano con dubbio che si tratti di un miraggio? Ecco, quell’albergue e’ esattamente ciò che può produrre un colpo di sole. Il sole del resto picchia in testa ovunque tranne nel giardino dell’albergue, dove vedo bagnanti uscire dalla piscina per dirigersi al bar o andare alla SPA.
E’ una scena per me crudele che mi tenta parecchio, anche perché sono davvero stanco, per cui – mentre penso all’ipotesi di fermarmi qui – vedo una macchina di grossa cilindrata fermarsi di botto proprio davanti al predetto albergue con un volto a me conosciuto: un tizio, proprietario praticamente di tutti gli albergues e dei bar dell’Acebo, con cui anni fa ho avuto una pessima esperienza. Avrà pure fatto i soldi, ma a quanto pare è rimasto lo stesso bifolco!

Capisco dunque l’andazzo e decido di farmi forza trascinandomi verso la valle. Il percorso, peraltro, è cambiato rispetto a qualche anno fa e non passa più per la strada asfaltata, ma su un cammino che corre parallelo. A Riego de Ambros, peraltro, constato che l’albergue è di fatto in stato di abbandono un po’ come tutto il suo territorio. Quando arrivo a Molinaseca – ormai sono le sei del pomeriggio passate – sorrido per questo a trentadue denti: è un paesino davvero bello dove, nell’attraversare l’antico ponte dei pellegrini, scorgo diversi ragazzi tuffarsi nel fiume. Lo faccio anche io con estremo senso di soddisfazione! Dopodiché vado alla Bodega el Camarero, dove c’è una bella atmosfera di allegria paesana, e ordino l’orgoglio della casa: un bicchiere di limonada che, a dispetto del nome, non è limonata. Anzi, picchia alla testa quasi quanto il sole di el acebo!
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Tappa da Molinaseca a Villafranca del Bierzo, 31 km
Iniziare un cammino a metà (e oltre ) è metafora di vita. Si fa con gioia, perché la destinazione resta la stessa, ma si ignora tutta la bellezza e tutto il mondo che c’è prima. Io lo so tutto ciò che c’è prima e provo davvero un rammarico fortissimo nel non poterlo rivivere.

La strada fino e dopo Ponferrada è davvero di un’antipatia unica: 15 km di puro asfalto che distruggono i piedi e non regalano emozioni. Ponferrada, poi, è per me storia conosciuta con il suo castello dei Templari e la Chiesa di Santa Maria della Quercia. E’ una cittadina grande, piena di attrezzature sportive e di servizi, ma per ogni pellegrino che si rispetti appare odiosa visto che non sembra finire mai e le indicazioni sono mal posizionate. Per abitudine mi fermo tra l’altro a fare colazione nello stesso identico caffè in cui ero passato ben 8 anni fa. Non è però una tappa affascinante di per sé: il percorso, rispetto a quello che ricordavo, è stato infatti modificato per non far passare i pellegrini nei vitigni ( probabilmente perché si mangiavano tutta l’uva!) e costringerli ad ore di camminata sull’asfalto.
A Cacabelos, in festa per una “festa romana” con stand a tema e abitanti vestiti da antichi romani, peraltro ritrovo James. Con lui c’è anche un tipo stramboide dell’Argentina, che vaneggia parlando di “pace universale” e “cosmo” mostrando però di non sapere nemmeno cosa sia il cammino di Santiago. E’ partito quest’oggi da Ponferrada, dove era da alcune settimane, perché “così gli diceva la testa”, ma non ha nemmeno una credenziale. Siamo così James e io a spiegargli che almeno una credenziale bisogna averla, salvo poi guardarci stupiti pensando al luogo da cui fosse sbucato questo tizio. Il cammino da Caccabellos si fa poi più interessante, grazie anche ad una bella passeggiata attorno ai vigneti che conducono direttamente a Villafranca.

Villafranca per me è uno spartiacque. E’ una cittadina elegante che adoro e in cui ho sempre voluto fermarmi ad ogni cammino proprio perché rappresenta “il campo base” ideale per affrontare il Cebreiro. Anticamente – ma in parte anche ora – qui era possibile ricevere il “perdon” per i peccati esattamente come a Santiago per quei pellegrini rimasti ammalati che non ce l’avrebbero fatta ad arrivare alla meta. All’arrivo mi metto d’accordo con James per una birretta, poi andiamo pure a fare la spesa per affrontare la tappa di domani. I piedi doloranti però non mi fanno stare tranquillo, per cui lascio a James la mia spesa e vado a farmi curare in un centro medico. All’uscita, venti minuti dopo, James non c’è più ( e nemmeno la mia spesa): non lo vedrò più, se non per un breve momento a Santiago!

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Villafranca del Bierzo – Cebreiro 32 km e poi…..boh!
Forzare le tappe mi è costato davvero tanto, per questo temo oltremodo la tappa odierna per i dolori che provo con i miei piedi.
Se l’ultima volta riuscì a fare una tappa epica da Villafranca a Tricastela, questa volta non credo di farcela: a) vengo già da due tappe tostissime; b) ho dolori fortissimi; c) stavolta non ho settimane di allenamento sul cammino alle spalle e sono pure in sovrappeso. In ogni caso non ci penso o, meglio, non penso ad altro se non al prossimo passo.

Per molti km, dall’uscita di Villafranca in poi, mi tocca camminare sull’asfalto, ma il paesaggio è piacevole, tipicamente montuoso – ben lontano da quello desertico della Castilla – e lussureggiante. Le mucche infatti preannunciano che stiamo entrando in Galizia.
Intanto la strada sale, sale sempre di più e sempre più in pendenza fino al tratto che precede la Faba, un tratto durissimo che sembra non finire mai e che, per fortuna, si conclude con la testa sotto una bella fontana d’acqua. Nel tragitto vengo tra l’altro superato da una famiglia francese con padre, madre e due figlioletti. Sono dei treni e non sembrano avvertire alcun fastidio né per la salita, né per il caldo micidiale. A pensarci bene non sudano nemmeno.

E che cacchio! Arrivo quindi al cippo che segna l’ingresso in Galizia con la rabbia di chi non aspetta altro se non la vetta e continua a trascinarsi a fatica. Poi, infine, arrivo: il villaggio del Cebreiro è mio.
Il Cebreiro, peraltro, oltre a costituire l’ultimo grande sforzo prima di Santiago, è importante per la Chiesa di Santa Maria La Real risalente al secolo XI.

Qui è infatti, all’interno della cappella del Miracolo, si conservano ancora le reliquie del miracolo eucaristico avvenuto nel ‘300, nonché la statua della stessa Santa Maria la Real che spalancò gli occhi di fronte al miracolo.
Capitò infatti che un contadino, Juan Santìn, incurante del freddo che da queste parti non manca mai, si recò alla messa celebrata da un monaco che non credeva alla reale presenza di Gesù nell’ostia consacrata. Quest’ultimo, nel vedere il contadino, sprezzante mormorò “cosa non si fa per assicurarsi un pezzo di pane e un sorso di vino…”.
Cosicché, nel corso dell’eucarestia, il pane e il vino si trasformarono in carne e sangue davanti agli occhi increduli del monaco. E’ questo il motivo per il quale la Chiesa di Santa Maria la Real continua ad essere meta di pellegrinaggi e luogo prescelto per celebrare matrimoni.
Del resto la vista dal Cebreiro, che permette di dominare tutte le montagne circostanti, ripaga di ogni sforzo.

A dirla tutta però, siccome domani dovrei incontrare mia sorella e suo marito nel tratto Sarria-Portomarin, io dovrei fare almeno altri 20 km fino a Tricastela, esattamente come 7 anni fa. Solo che, come già detto, non sono assolutamente in grado di farlo: estoy hecho polvo, ovvero sono distrutto.
Cosa dovrei fare dunque? Rispettare i tempi del mio cammino o provare a raggiungere il mio obiettivo con altri mezzi?
Opto per la seconda scelta, violando la regola aurea di ogni buon pellegrino: chiedo così un passaggio fino a Tricastela, poi – una volta passato qui – vedo passare un taxi e prendo anche quello fino a Sarria. Mi sono così mangiato 40 km, praticamente una tappa, in poco meno di mezzora. Non avrei voluto farlo, avrei voluto scendere dal Cebreiro e vedere le statue dei grandi pellegrini che indicano la strada, ma l’ho fatto.
A Tricastela, peraltro, mi ero fermato a parlare con un vecchiarello curioso assai con un sigaro in bocca e dall’aria scanzonata che mi ha premesso di smettere di fumare quando si trasferirà a Tricastela per sempre, cioè mai.