La natura della responsabilità degli enti e l’incidenza della pronuncia di non punibilità per particolare tenuità del fatto nel reato presupposto.

Ricostruito il dibattito sulla natura giuridica della responsabilità degli enti, esamini il candidato l’incidenza sulla stessa di una declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto nel reato presupposto

 

Si discute sia in ordine all’ammissibilità che alla qualificazione giuridica della responsabilità degli enti.   Sotto  il primo profilo, si è tradizionalmente esclusa la possibilità di configurare una responsabilità  penale in capo agli enti, sia per quelli con personalità giuridica che per quelli che ne sono privi, in quanto una soluzione diversa  non  sarebbe compatibile con  l’assetto costituzionale  e più in particolare con il principio di personalità della responsabilità penale ( art. 27 cost).   Pertanto, ad avviso di questa impostazione, la circostanza che la sanzione penale presupponga un atteggiamento psicologico cui collegare un giudizio di riprovevolezza  e la funzione rieducativa della pena costituirebbero un limite invalicabile  per l’individuazione di spazi di responsabilità per l’ente (  per cui si eleggeva a principio generale il  brocardo societas delinquere non potest). Né in senso contrario viene in soccorso l’art. 197 c.p. nel configurare una responsabilità per gli enti dotati di personalità giuridica: per gli stessi infatti – nel caso di fattispecie contravvenzionali – è prevista solo una pena pecuniaria e solo in via sussidiaria.

Il dibattito relativo alla “colpa da organizzazione” dell’ente ha tuttavia trovato nuova linfa – imponendo peraltro un ripensamento generale delle conclusioni tradizionalmente  sostenute  dalla dottrina-  in seguito all’entrata in vigore del d. lgs n. 231/2001,  provvedimento che ha introdotto una disciplina specifica sulla responsabilità degli enti  lasciando tuttavia  irrisolti i problemi relativi alla qualificazione di detta responsabilità.
Si introduce, infatti, come regola generale, il principio secondo cui un ente è responsabile in conseguenza dei reati commessi da soggetti che, in virtù del ruolo rivestito all’interno dell’organismo, hanno agito  anche nell’interesse o a vantaggio di quest’ultimo ( c.d. reato presupposto).

L’accertamento del fatto compiuto dalla persona fisica va tuttavia tenuto distinto rispetto a quella dell’ente.

E, invero, trattasi di una conclusione che trova conferma, da una parte, nell’art. 6  del summenzionato decreto, in base al quale l’ente può ottenere un esonero da responsabilità  provando di aver posto modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione del reato in concreto commesso; dall’altra nell’art 8 per il quale sussiste la responsabilità dell’ente in assenza del reato presupposto quando il reato si è estinto o non ne risulta individuabile l’autore.  L’autonomia del giudizio di accertamento del fatto contestato all’ente rispetto a quello imputabile alla persona fisica è pertanto un principio enucleabile già dallo stesso dato letterale che consente, tra l’altro, di negare che si tratti di una responsabilità oggettiva configurabile per la sola commissione del  fatto da parte dell’autore del reato presupposto:   si può infatti sostenere che sia configurabile una colpa di organizzazione dell’ente per non aver adottato i modelli idonei a prevenire l’illecito.

Ciò premesso, sebbene il provvedimento legislativo in commento   qualifichi come amministrativa detta responsabilità, va detto che si tratta di una qualificazione del tutto impropria: l’accertamento della responsabilità è infatti effettuata nell’ambito di un procedimento penale con le stesse regole del codice di rito previste a garanzia della persona fisica imputata in quanto compatibili ( artt. 34 e 35 del d.lgs. n. 231/2001).

Sennonché va tuttavia evidenziato che non si può desumere di certo la natura della responsabilità dalla sede processuale ( id est: il processo penale) in cui essa viene statuita, anche in considerazione della circostanza che nel processo penale non mancano ipotesi di sanzioni aventi natura non penale. E’ il caso paradigmatico della confisca urbanistica, sanzione di cui è indiscussa la natura amministrativa.

In ordine quindi alla qualificazione giuridica della natura di detta responsabilità si sono pertanto scontrate  tre tesi: a)  la tesi che sostiene la natura amministrativa della responsabilità; b) la tesi che ne afferma la natura penale; c) la tesi che, in assenza di una compiuta disciplina, sostiene l’inutilità del dibattito.

In realtà la questione ha ricadute pratiche evidenti:  aderendo alla tesi della natura penale si pongono infatti problemi di contrasto del decreto rispetto ai principi di  personalità della responsabilità penale ( art 27, 1^ co. cost ), dell’obbligatorietà dell’azione penale ( art 112 cost)  e della presunzione non colpevolezza ( art 27, 2^ co. cost ).

Più in particolare la tesi della natura amministrativa, partendo dal dato letterale ( cfr. “ responsabilità amministrativa derivante da reato”) in omaggio al brocardo societas delinquere non potest, sostiene la necessità di optare per una lettura costituzionalmente orientata per evitare possibili momenti di frizione con il modello costituzionale e nello specifico con la prova di esonero ex art 8 del dlgs n. 231/2001, nonché con l’archiviazione prevista in violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Chi opta per la tesi in favore della qualificazione penale sostiene invece che “la tesi amministrativa è una frode delle etichette” e valorizza la specificità dell’elemento soggettivo individuabile nella responsabilità imputabile all’ente. Ad avviso di questa tesi infatti non ci sarebbe alcuna frizione con il principio di personalità della responsabilità penale atteso che quella dell’ente non sarebbe una responsabilità oggettiva, ma una responsabilità colpevole derivante cioè dalla colpa da organizzazione contestabile all’ente e consistente nel non aver adottato i modelli organizzativi idonei ad impedire la commissione del fatto illecito.
Inoltre, si valorizza il collegamento di tale responsabilità con il reato presupposto a monte e la circostanza che a comminare la sanzione è sempre un giudice  all’interno del processo penale.

In questo contesto si è poi inserito quell’orientamento secondo  cui si verserebbe addirittura in una ipotesi di concorso ex art. 110 c.p.  rispetto all’autore del reato presupposto laddove la responsabilità dell’ente  deriverebbe dall’aver omesso di adottare un comportamento doveroso consistente nella predisposizione un certo modello organizzativo. Quest’ultima è però una impostazione che è destinata a cedere allorché si consideri che l’ente non risponde del reato presupposto ( né soggiace alla pena per lo stesso prevista), ma di una autonoma fattispecie di cui il reato presupposto è solo uno degli elementi  costitutivi. Tra l’altro i reati presupposti sono dolosi, mentre all’ente si contesta un deficit organizzativo, cioè una responsabilità colposa.

E, del resto, una tesi che affermi la natura penale della suddetta responsabilità dà per scontato che sussista un accertamento del nesso causale, ma dal decreto 231/2001 la richiesta di tale accertamento non sembra emergere.

Il dibattito suesposto si è spesso riproposto anche in riferimento ad altri istituti dell’ordinamento penale in cui viene in rilievo il collegamento con il reato presupposto.  Ci si riferisce nello specifico all’ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto introdotta nel 2005 con  l’art. 131 bis c.p.

In siffatta ipotesi, laddove il giudice ritenga di non dover applicare una sanzione per un fatto che astrattamente viola la norma penale ma in concreto è privo di un’offensività al bene giuridico tutelato tale da giustificare  la reazione dell’ordinamento, ci si chiede se anche la responsabilità derivata sull’ente ne venga travolta.

La risposta non potrebbe  che essere affermativa ove la responsabilità dell’ente fosse qualificata come oggettiva: il venir meno ex art. 131bis cp. dei presupposti di punibilità per la persona fisica autore dell’illecito farebbe automaticamente venir meno anche quelli per applicare le sanzioni previste dal decreto n. 231/2001 per gli enti.

Di contro, una volta chiarito che l’elemento soggettivo che emerge nella responsabilità dell’ente è la colpa ( sub specie di colpa da apparato per non aver adottato un determinato modello organizzativo ) e dopo averla distinta rispetto al dolo  riscontrabile nel reato presupposto, non si può che concludere per la tesi che sia una responsabilità ossequiosa del principio di personalità ai sensi dell’art 27 cost e che al venir meno dei presupposti per la punibilità del reato presupposto il reato conseguenza imputabile all’ente non può automaticamente subire la stessa sorte. E, del resto, il titolo di  reato contestato alla persona fisica  è diverso rispetto a quello contestato all’ente.  Tali considerazioni, indici dell’autonomia del giudizio sulla responsabilità dell’ente,  vanno poi associate ad una attenta analisi  della portata dell’istituto di cui all’art. 131 bis c.p.

Laddove si ravvisino i presupposti per l’applicabilità dello stesso, la fattispecie di reato non viene meno: il fatto  compiuto dalla persona fisica continua infatti ad essere in violazione di una norma penale, antigiuridico e colpevole. Ciò che, invece, viene meno è solo la risposta sanzionatoria dell’ordinamento in virtù di una valutazione di opportunità operata dal legislatore.  La questione, del resto, è stata affrontata in questi termini dalla giurisprudenza che, valorizzando la  circostanza che non venga meno alcun elemento costitutivo che fonda la responsabilità dell’ente, afferma ancora una volta che l’accertamento su quest’ultima sia del tutto autonomo  e quindi sganciato rispetto a quella sul reato presupposto.

Conseguentemente, anche laddove si ritenga non punibile il fatto commesso dalla persona fisica organica all’ente per particolare tenuità del fatto, non si può che ritenere necessario provvedere ad un autonomo accertamento nei confronti dell’ente  per vagliare in concreto se sia possibile pervenire ad esiti valutativi diversi.

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